ALESSANDRO PALAZZI: LA CLASSE NON È ACQUA, MA MARTINI COCKTAIL

Per molti l’artefice del migliore – sicuramente il più letale – Dry Martini di Londra, Alessandro Palazzi si sta godendo la sua gloria, per una carriera i cui inizi risalgono al 1975. Continua però a viaggiare a suon di guest bartending e a preparare i suoi Martini ghiacciati in tutto il mondo, anche se lo si incontra con regolarità al Dukes Bar di Londra, che si dice abbia ispirato un cliente abituale come Ian Fleming per la frase “shaken not stirred”. Nel frattempo, Alesandro è anche ambasciatore di Hospitality Action e raccoglie fondi per la Mission Dolores Academy di San Francisco.

Quale è stato il tuo primo approccio a Bartender.it? Ti ricordi il tuo primo evento organizzato da noi a cui hai partecipato?
Il mio primo approccio con Bartender.it è stato in occasione di uno the primi theGINday a Milano. Giornata fantastica, ho avuto modo non solo di presentare qualche gin, ma anche – grazie a voi – di tenere un seminar in cui dovevo parlare per 40 minuti, ma che ad un certo punto è stato interrotto da Ago (Perrone, ndr) con un “taglia!”. Eh sì, io quando comincio a parlare…
Comunque ho avuto la possibilità di parlare e confrontarmi sulle mie esperienze con i colleghi italiani, cosa chiedere di più da un evento?

Dal 2006, più o meno l’arrivo di Facebook in Italia che è coinciso con l’anno di fondazione di Bartender.it cosa, quale idea, concetto – non persone in particolare – ma trend, ha cambiato in Italia il mondo dei cocktail bar?
Premetto che ho lasciato l’Italia nel 1975 e probabilmente nessuno di voi era ancora nato (ride, ndr). Quello che ho notato nei miei ritorni in Italia, come in occasione di theGINday, è stato un grande cambiamento. Penso a canali come Facebook, che hanno di certo aiutato, ma in generale nella media i bartender italiani sono usciti da quell’approccio classico che ho conosciuto io da giovane – in cui, diciamocelo, eravamo un po’ dei pezzi di legno. Oggi tutti sono molto più aperti, più innovativi… anche nel look. Io nella barba e nei tatuaggi non ci trovo niente di male!

Che ricordo hai, se lo hai, di Dom Costa, primo bartender italiano a connettere il mondo dei cocktail italiani con il mondo della miscelazione mondiale negli ultimi 30 anni?
L’ho conosciuto in occasione di un evento. Una persona e un professionista che ha fatto molto, specialmente per i bar italiani portando al mondo la sua filosofia. Sicuramente è stato e resterà uno dei Grandi.

Cosa cambieresti o progetteresti del locale in cui lavori?
Questo maledetto TripAdvisor! Lo eliminerei dal nostro lavoro: è solo una gran rottura. Il mio proprietario è fissato con TripAdvisor: io gli dico che sono felice se qualcuno mette una bad review su di noi, così di certo non si ripresenterà più al bar.

Ti piacerebbe avere un locale tutto tuo, in cui “decidi”, pensandolo, costruendolo (… e mettendoci i soldi) per fare tutto da solo?
L’ho avuto in passato e ho fatto degli sbagli. Ora all’età di 65 anni sarebbe un po’ dura … Comunque ho la fortuna che il Dukes Bar, per il modo in cui ci lavoro, è un po’ come fosse il mio: la direzione lascia estrema libertà a me e al mio team.

Ti piace stare in sala oltre che dietro al banco e perché?
Stare in sala è importante tanto quanto stare dietro al bancone. Nella mia carriera ho potuto fare il sommelier e anche il maître d’hotel, tutte scelte finalizzate ad imparare meglio l’arte del saper stare in sala. Essere un buon bartender non è solo fare buoni drink, ma saper accogliere e saper gestire al meglio i propri clienti: in un bar non si va solo per bere un buon cocktail, ma per godersi un’atmosfera. Ogni professionista che si rispetti deve capire in base al momento (provando anche a interpretare la giornata del cliente) cosa sia importante e cosa debba essere lasciato in secondo piano, se necessario. Una cosa che ormai ho capito, avendo avuto la possibilità di fare diverse esperienze nell’hospitality (sono cinquant’anni faccio questo lavoro), è riuscire a leggere il body language del cliente quando entra nel locale. Ormai è diventato un aneddoto: il cliente arriva, si guarda intorno e io sono già ad accoglierlo con un “non si preoccupi, prego”. Lui mi dice: “e tu come fa tu a saperlo?”. “Eh, li vede i miei capelli bianchi?”, dico io.

Torneresti (… o tornerai!), prima o poi, a lavorare in Italia? Perché si e perché no?
C’ho provato: aprii un bar, un buon cocktail bar, a Perugia. Purtroppo però feci degli sbagli: non solo nella scelta dei soci, ma fu anche una difficoltà mia, che ormai ero diventato un po’ “straniero a casa mia”. Con la mentalità che c’è oggi, sarebbe più facile di quando mi ci sono dedicato io negli anni ’90, tempi in cui poteva capitare che gli altri locali limitrofi facessero di tutto per mandarti via. Brutta cosa, la gelosia…

In quale altra città del mondo (rispetto a quella in cui sei ora) vorresti andare a lavorare fulltime?
Io adoro il Giappone: se potessi tornare indietro vorrei lavorare full time in città come Tokyo , Kyoto e Osaka. Ho avuto la fortuna di fare da quelle parti diversi takeover e di tenere seminari. Lì è dove sarei felice, senza nulla togliere a Londra, che mi piace anche perché ci sono ormai da tanti anni.

Quanto può crescere ancora la tua città in termini di miscelazione e – più in generale – in termini di ospitalità?
La miscelazione e il mondo dei cocktail qui a Londra si muovono sempre andando avanti. E non ti puoi fermare! E a me, trovare cose nuove ed esperienze stimolanti, è una cosa che piace molto. Quando ho cominciato io questa carriera (secoli fa) c’erano 50 cocktail: una volta che li sapevi fare eri er mejo della città. Oggigiorno – ed è anche quello che mi ha fatto crescere negli ultimi 25 anni – la nuova miscelazione è alla ribalta: gente come Dick Bradsell prima, e poi Ago Perrone, Erik Lorincz, Alex Kratena e Simone Caporale hanno svegliato noi vecchiacci.

Oltre al tuo, hai almeno tre bar preferiti (escludendo quelli dei Magnifici 7!)?
Il The Dorchester, da cui purtroppo si è ritirato Giuliano Morandin ma che resta un bar che a me piace molto. Il Locale a Firenze è un bar in cui mando la gente sempre volentieri. E poi il Dry Martini di Javier de las Muelas a Barcellona, dove sono stato invitato a tenere 2 ore di takeover in occasione della festa per i loro 40 anni.

C’è qualcosa che non rifaresti? Qualcosa di cui ti sei pentito nella tua vita professionale, aldilà che tutte le esperienze portano a dove si è ora…
Mai pentirsi di ciò che si è fatto: gli sbagli ti insegnano a crescere, l’importante è rendersi conto di dove si ha sbagliato. Io finora sono contento di ciò che ho fatto; l’unica cosa che mi dispiace è che ai miei tempi non si poteva accedere ad un livello di conoscenza come oggi. Io trovo che i giovani bartender abbiano molta più tecnica e knowledge di noi “vecchi”: ho avuto la fortuna di assistere a dei training all’interno dei cocktail bar più moderni a Londra e sono rimasto davvero stupito.

Per superare gli stereotipi dell’italiano all’estero (stile “pizza, pasta e mandolino”), pensi sia meglio mostrare come si fa un Negroni a regola d’arte, oppure… cambiare cocktail?
Purtroppo questo tipo di stereotipo l’ho vissuto sulla mia pelle, non solo a Londra ma specialmente a Parigi dove ho lavorato per 12 anni. Parlo di ex colleghi dai quali all’inizio ricevevo insulti su insulti – forse anche un po’ per gelosia verso noi italiani. Riguardo agli stereotipi c’è però da dire – come sottolineai a un giornalista che a theGINday mi chiedeva come mai lo staff del Dukes fosse sempre composto da moltissimi italiani – che per la nostra natura ed il nostro DNA noi ci sappiamo adattare benissimo, sappiamo andare avanti e (quando serve) “sbattercene”. Forse anche per questo, dal 1975 ad adesso noto che siamo ben più apprezzati che un tempo. E anche i clienti preferiscono il bartender italiano.

Un piatto preferito da mangiare e uno da cucinare a casa
Il mio piatto preferito sono i tortellini in brodo. A casa ho la fortuna di avere mio figlio che cucina piuttosto bene. Dalle lasagne ad altri piatti e prodotti italiani, ma a me piace molto anche il boeuf bourguignon.

Nel tempo libero: rifugio in montagna? Bungalow al mare o rustico in campagna?
Adoro la montagna, mi piace molto. Però uno dei posti in assoluto dove amo trascorrere il mio tempo è il lago di Como: per me è un paradiso terrestre.

Sei ambassador ufficiale di qualche brand?
Per me un bartender è un ambasciatore di sè stesso e della miscelazione in quanto tale. Io ho la fortuna che al Dukes non firmiamo contratti, è una scelta mio e del team. Quando arriva un nuovo prodotto lo scegliamo insieme, e a me personalmente piace far conoscere ai clienti diversi prodotti: abbiamo una clientela internazionale, quindi ad esempio a volte ripercorro il giro del mondo con diversi gin, preparando Martini un giorno con un Gin di Londra, poi del Kenya, poi della Scozia, etc. Questo accresce anche l’amicizia fra il  bartender ed il cliente, che è sempre più preparato.

C’è qualcuno che consideri il tuo Maestro? E qualcuno che ti considera il suo?
Maestro?! No, mia moglie è “maestra”. Quella parola dovrebbe essere usata per chi insegna a scuola. Noi siamo bartender. Quando partecipo a seminari o eventi e mi chiamano Maestro, dico a tutti di stare attenti a ciò che dicono. No, quel titolo proprio non mi piace.
Io imparo molto anche dai nuovi giovani bartender! Comunque, se devo dire quelli che mi hanno ispirato e mi hanno fatto crescere sono Dick Bradsell e Giuliano Morandini.

Anche a te, da piccolo, avranno fatto la solita domanda “cosa vuoi fare da grande”. Tu cosa rispondevi?
Da piccolo volevo fare il giornalista, e l’attitudine mi è rimasta: quando parlo mi piace raccontare storie e quando creo qualche nuovo cocktail esiste sempre una storia nascosta dietro –  che poi racconta veramente il perché io abbia agito proprio in quel modo.

Si parla tanto di intelligenza artificiale: nel tuo lavoro, cosa lasceresti fare ad una macchina e cosa non gli lasceresti mai?
All’intelligenza artificiale lascerei fare i conti più velocemente e dare l’impianto ai menu. Per il resto, io sono uno storyteller! Tutti i negozi storici che esistono attorno al Dukes da più di 300 anni ti fanno immergere nell’atmosfera del nostro bar: come potrebbe darne conto una macchina?! Nel mondo dell’hospitality serve un rapporto faccia a faccia.

Al tuo livello, il mondo del bartending si rivolge ad un target “alto”. Ti piacerebbe “aprire” le tue creazioni anche a chi ha meno possibilità? E come lo faresti? Dopotutto se Bottura si è inventato i Refettori…
Una cosa che ho fatto al Dukes è stata togliere il dress code. Il nostro mondo deve essere aperto per tutti. Ho vissuto il vero snobismo a Parigi, quando lavoravo al Ritz dove purtroppo avevo parecchi colleghi davvero pieni di sé. Nella clientela c’erano anche molte celebrities, spesso non paganti perché venivano a “vendere” i loro dischi o i film. Io ho sempre dato più importanza al cliente che viene da noi per vivere un momento speciale, e dunque paga dalle sue tasche. Questi sono i veri clienti. Allo stesso Connaught, che è un grandissimo bar d’albergo e in cui c’è un servizio favoloso, sei trattato sempre allo stesso modo e nessuno guarda chi tu sia. E questo è importante anche al Dukes: trattare tutti in egual modo.

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