GIACOMO GIANNOTTI: IL BELLO DI ESSERE SULLA CRUST DELL’ONDA

Uno dei volti più noti nel guest bartending del circuito mondiale, Giacomo Giannotti ha visto il suo bar Paradiso di Barcellona conquistare il 1° posto nella classifica dei 50 Best Bars 2022. Come se non bastasse, ha anche lanciato un laboratorio all’avanguardia incentrato sulla sostenibilità e gestisce altri due locali: Galileo e Monk.

Dal 2006, più o meno l’arrivo di Facebook in Italia che è coinciso con l’anno di fondazione di Bartender.it cosa, quale idea, concetto – non persone in particolare – ma trend, ha cambiato in Italia il mondo dei cocktail bar?
Penso che in Europa ci sia stata una rivoluzione nel mondo dei cocktail che è arrivata a toccare la percezione della qualità da parte del cliente finale. La cultura in ambito di mixology si è diffusa, la preparazione approfondita anche dei giovani che oggi viaggiano e cercano l’esperienza del “bere bene” nei cocktail bar in tutte le città europee, grandi e piccole, ormai è una realtà consolidata, con locali di qualità ovunque, con dei prodotti di qualità e con veri professionisti dietro il bancone, che fanno da bere bene e al contempo educano il cliente. In questo processo, piattaforme come Facebook e internet in generale hanno sicuramente aiutato tantissimo: la comunicazione e l’informazione sul mondo dei cocktail sono esplose in tutta Europa e non si torna più indietro.

Che ricordo hai, se lo hai, di Dom Costa, primo bartender italiano a connettere il mondo dei cocktail italiani con il mondo della miscelazione mondiale negli ultimi 30 anni?
È un ricordo bellissimo. Devo essere sincero, non lo conoscevo benissimo perché ho svolto tutta la mia carriera all’estero. In un paio di eventi però ci siamo incontrati e siamo riusciti a conoscerci: ricordo il grande sorriso, la grande disponibilità, cose che a pensarci ora mi fanno vengono i brividi. Impressione veramente eccezionale che conserverò sempre così.

Cosa cambieresti o progetteresti del locale in cui lavori?
È una bellissima domanda: io sono sempre a cambiare cose, a spostare, modificare, aggiornarmi, quindi sono in continuo cambiamento. Se otto anni fa, quando ho aperto, avessi avuto più conoscenza sui temi della sostenibilità e la circolarità dei prodotti, avrei disegnato il bar incentrato più su questo, sia dal punto di vista della sostenibilità energetica / elettrica a quella della gestione di scarti e rifiuti. È anche vero che quando abbiamo avevamo anche un budget limitato e sicuramente abbiamo fatto il possibile… però la sostenibilità a quei tempi non era fra le priorità assoluta e non è rientrata nei discorsi primari quando abbiamo disegnato il bar. Se tornassi indietro, la solleverei di certo a uno dei primi posti.

Ti piacerebbe avere un locale tutto tuo, in cui “decidi”, pensandolo, costruendolo (… e mettendoci i soldi) per fare tutto da solo?
Diciamo che Paradiso – seppure in società con altri due soci – rappresenta ciò che ho sempre sognato: l’ho pensato, sono io che do le direzioni, anche se sono convintissimo che uno da solo non arrivi da nessuna parte. C’è sempre bisogno del team, tanto nel servizio ma anche nella compagine dei soci e in generale delle persone che lavorano nella compagnia inclusi uffici e amministrazione; questa fa sì che tutto funzioni.
Dentro a Paradiso comunque c’è tanto Giacomo, sia nelle decisioni che nello stile e nel servizio.

Ti piace stare in sala oltre che dietro al banco e perché?
Sì, mi piace stare in sala perché dà una visione, una prospettiva diversa rispetto a quella che hai dietro al bancone La sala è importante e il lavoro deve essere perfetto.
Quando sono al bancone, però, sento una soddisfazione e un piacere unici: essere a contatto con molti clienti, vedere il volto delle persone quando provano il tuo drink, vivere di interazioni con l’ospite mentre prepari un cocktail è una cosa bellissima e resta ciò che mi fa innamorare di questo lavoro. Quindi penso che un bartender debba saper stare tanto in sala quanto dietro il banco, ovviamente. Ma per me, stare in postazione è proprio una goduria.

Torneresti (… o tornerai!), prima o poi, a lavorare in Italia? Perché si e perché no?
Nella vita, mai dire mai. Io sono andato via a 18 anni, i miei genitori hanno la gelateria Paradiso, e mio fratello ne ha un’altra, quindi conosco bene le dinamiche dell’hospitality in Italia.
Ho fatto la mia strada, prima formandomi professionalmente a Londra e poi qui a Barcellona dove ho trovato la mia dimensione sia a livello di stile di vita che lavorativamente. Sto benissimo, quindi ora come ora penso di non tornare, anche perché qui ho 3 locali.
Ma in futuro, non si sa mai. L’Italia è il mio paese, di cui amo, tradizioni, cultura e prodotti. Quindi vedremo, se arriverà l’opportunità giusta… ci farò un pensierino.

In quale altra città del mondo (rispetto a quella in cui sei ora) vorresti andare a lavorare fulltime
Premetto che a Barcellona sto benissimo. Se però dovessi scegliere altre città dove poter andare, sicuramente a livello affettivo direi la mia città, Marina di Carrara – per restare con la mia famiglia – e l’altra sarebbe la città di mia moglie, Caracas, un posto bellissimo e che spero migliori ancor di più perché ha tutto per poterlo fare: il mare dei Caraibi, un bel clima e prodotti incredibili.

Quanto può crescere ancora la tua città in termini di miscelazione e – più in generale – in termini di ospitalità?
Barcellona negli ultimi dieci anni è cresciuta tantissimo e ho avuto la fortuna di essere parte di questa rivoluzione in termini gastronomici. Sicuramente c’era già un’ottima base con il movimento creato da Ferran Adrià e da tutte le persone che hanno lavorato con lui, e da lì si è sviluppato anche a livello di mixology.
Sono stato comunque partecipe di una rivoluzione enorme: nuovi locali, nuovi concetti, tantissime persone dedicate, sia di Barcellona ma anche dall’estero che sono venute qui per contribuire a creare una capitale dei cocktail bar a livello mondiale. Però c’è sempre possibilità di crescere, e qui c’è una buonissima base data da una comunità fertile, che sicuramente ha gettato le basi per potersi evolvere ancor di più negli anni.

Oltre al tuo, hai almeno tre bar preferiti (escludendo quelli dei Magnifici 7!)?
Viaggiando si scoprono bar incredibili, quindi ne ho tanti! Fare 3 nomi è difficile, ma dei bar che mi hanno complito fin dalla prima volta sono il Carnaval di Lima, l’Oriole Bar di Londra e il Bar Leone di Lorenzo Antinori ad Hong Kong.

Dicci un aggettivo o una parola per ciascuno degli agli altri Magnifici 7!
Alessandro Palazzi: Esempio, per tutti noi bartender più giovani. Vederlo lavorare ancora testimonia di una vera legacy. Alex Frezza: Simpatia, è una persona genuina e pura. Patrick Pistolesi: per me è come un fratello maggiore, gli voglio un sacco di bene. Stefano Catino: Pazzia, perché è matto scatenato, ovviamente in senso positivo. Simone Caporale: creatività. Ago Perrone: eleganza e ispirazione per noi ragazzi un po’ più giovani.

C’è qualcosa che non rifaresti? Qualcosa di cui ti sei pentito nella tua vita professionale, aldilà che tutte le esperienze portano a dove si è ora…
Sicuramente qualcosa ci sarà, però sono ora molto contento della strada che ho fatto e contento del mio team, che mi ha portato a dei grandi risultati. Degli sbagli che certamente avrò fatto in questi anni sono però sempre riuscito a vedere il lato positivo.

Per superare gli stereotipi dell’italiano all’estero (stile “pizza, pasta e mandolino”), pensi sia meglio mostrare come si fa un Negroni a regola d’arte, oppure… cambiare cocktail?
Penso che la migliore lezione che diamo ogni giorno si ritrovi nel lavoro di tutti noi in tutto il mondo, ovvero l’ospitalità. Si riconosce sempre e dovunque quando dietro al banco o in sala c’è un italiano: per il welcoming, il sorriso, la maniera e lo stile, a dimostrazione della passione che mettiamo in quello che facciamo. Questo è il miglior modo per differenziarci dagli stereotipi dell’italiano – oltre ovviamente ad un altro grande punto a favore come il fare un Negroni a regola d’arte.

Un piatto preferito da mangiare e uno da cucinare a casa
Ce ne son diversi, ma vado sulle paste: o lasagna o fettuccine al ragù. Da cucinare invece, siccome siamo in estate, vado su un bello spaghetto allo scoglio.

Nel tempo libero: rifugio in montagna? Bungalow al mare o rustico in campagna?
Mamma mia… tempo libero… non vedo l’ora! Mare, tutta la vita – e se possibile un bel mare, una bella spiaggia e un po’ di relax.

Sei ambassador ufficiale di qualche brand?
No, mi considero ambasciatore di Paradiso: lo porto in giro per il mondo comunicando, condividendo il nostro stile, le nostre idee, i nostri drink e la nostra filosofia. Ed è veramente un piacere.

C’è qualcuno che consideri il tuo Maestro? E qualcuno che ti considera il suo?
Si, Giuseppe Santamaria. Abbiamo lavorato assieme al Lola Boutique Bar qui a Barcellona: quando mi chiamò per entrare nel suo team ero molto giovane, avevo 23-24 anni. Siamo stati insieme due anni. Io venivo da Londra e da uno stile di bartending più sul flair, più sul free pouring. Al Lola invece si faceva un lavoro più di fine dining, con attenzione al dettaglio,  agli ingredienti, al mix di sapori e alla presentazione. Quella per me è veramente stata l’università del cocktail, della mixology e dell’ospitalità. Se sono quello che sono oggi, devo tantissimo a quei due anni due anni e mezzo, che mi hanno affinato tantissimo come bartender.
Ci sono poi altre persone che considero esempi, come Salvatore Calabrese, Agostino Perrone e Simone Caporale, che sono sempre stati dei modelli da seguire tanto per il loro stile, per l’ospitalità, per la creatività. Non ho mai avuto il piacere di lavorare con loro, anche se oggi li considero amici e li ho sempre presi come punto di riferimento per la mia crescita professionale.

Anche a te, da piccolo, avranno fatto la solita domanda “cosa vuoi fare da grande”. Tu cosa rispondevi?
Da piccolo giocavo a pallone: ero bravino, la prima passione è stata il calcio anche se poi ho avuto qualche infortunio e ho smesso. Da lì ho iniziato a dare una mano alla gelateria di famiglia e, studiando all’alberghiero, fin dai 14-15 anni ho maturato il desiderio di fare il bartender. Appena finita la scuola ho fatto un corso da barman e sono partito in direzione Londra, per imparare veramente questo mestiere.
La mia passione per il mondo del bar e per la miscelazione parte dal vedere il bartender come una figura elegante, che stava dietro ad un bancone come fosse una sorta di palcoscenico a teatro. E questa cosa mi ha attirato tanto e mi ha gasato.

Si parla tanto di intelligenza artificiale: nel tuo lavoro, cosa lasceresti fare ad una macchina e cosa non gli lasceresti mai?
Nel mio campo non ho ancora fatto grandi sperimentazioni in merito. Ho visto qualche video, qualche masterclass. Ne ho sentito parlare da qualche collega. Quando mi capiterà, vedremo cosa gli lascerò fare e cosa no.

Al tuo livello, il mondo del bartending si rivolge ad un target “alto”. Ti piacerebbe “aprire” le tue creazioni anche a chi ha meno possibilità? E come lo faresti? Dopotutto se Bottura si è inventato i Refettori…
Una bellissima domanda che entra nella sfera della “sostenibilità umana”. Noi a Paradiso con il progetto  “Zero Waste Lab” stiamo puntando sul reinserimento lavorativo, collaborando con delle ONG che si dedicano a persone che hanno meno fortuna di noi. L’idea è quella di poterli includere presto nel team, insegnando la nostra metodologia di lavoro e, perché no, fargli provare le nostre creazioni. Sicuramente è un modo per dare a queste persone un’occasione, una nuova opportunità nella vita.

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